Con la sentenza n. 24941 del 10 dicembre 2015 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione è intervenuta in tema di licenziamento del dirigente per comportamento negligente, affermando che:
“il rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro è particolarmente stretto in ragione delle mansioni affidate, e, quindi, è suscettibile di essere leso…anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o da una importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro”.
Il caso all’esame della Corte di Cassazione
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha esaminato il caso di una ex dirigente della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Ragionieri e Periti Commerciali (d’ora in poi: “Cassa”) che aveva visto rigettarsi dalla Corte di Appello di Roma l’appello avverso la sentenza pronunziata in data 2 luglio 2009 dal Tribunale di Roma, con la quale era stata respinta l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimatole con lettera del 6 agosto 2007.
Con il ricorso in appello, la lavoratrice in buona sostanza:
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deduceva la mancata contestazione specifica, e in ogni caso la tardività, di uno degli addebiti che avrebbero comportato il licenziamento (segnatamente, la lacunosa redazione della bozza di bilancio 2006, dalla quale non emergeva il pignoramento subito dall’Ente a causa del mancato versamento di somme al creditore pignorante da parte di un avvocato);
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sottolineava poi che non poteva ricomprendersi nelle proprie mansioni il dovere di verificare l’esito dell’offerta reale compiuta in forza di procura speciale dall’avvocato di cui sopra per l’acquisto di un immobile di elevato valore, e che in ogni caso la contestazione doveva ritenersi tardiva;
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precisava infine che la contestazione inerente all’erronea intestazione di un mandato di pagamento non poteva intendersi riferita all’errore nella compilazione, avendo ella provveduto in tempi successivi ad effettuare le dovute correzioni.
La Corte di Appello di Roma – con sentenza n. 6653 del 27.10.2011 – rigettava il ricorso della dirigente, confermando quanto statuito in primo grado.
Nel ricorso per cassazione, la dirigente ha evidenziato in particolare:
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che il nuovo Presidente della Cassa, nominato nel 2007, era perfettamente a conoscenza del pignoramento dei canoni di locazione subito dall’Ente ben due anni prima, avendo ricoperto la carica di Vice Presidente, come pure che non sussistevano ragioni per prorogare l’istruttoria circa l’offerta reale, fatto noto sin dal 26 aprile 2007, cosicché le contestazioni successivamente formulate dovevano ritenersi tardive;
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che ben avrebbe dovuto la Corte d’Appello esaminare la sentenza penale di condanna dell’avvocato che, con la sua condotta illecita, aveva causato danni patrimoniali al bilancio della Cassa, del tutto in buona fede non segnalati tempestivamente dalla ricorrente, tanto più che la stessa era stata assolta dalla Corte dei Conti per insussistenza di anomalie contabili;
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che la Corte d’Appello non aveva specificato la causale del licenziamento, apparentemente qualificato come giustificato motivo soggettivo senza peraltro che venisse riconosciuta l’indennità di preavviso, sull’erroneo presupposto dello stretto vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto dirigenziale.
A fronte di quanto sopra, tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto corrette le statuizioni della Corte territoriale, evidenziando che, nel caso di specie, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente, non è ravvisabile alcuna violazione del principio di immediatezza della contestazione di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
Secondo la Corte, nel valutare l’immediatezza della contestazione occorre considerare le ragioni oggettive che possano ritardare la percezione o il definitivo accertamento dei fatti contestati. Qualora non vi siano motivi per prolungare le indagini, essendo il datore in possesso di tutti gli elementi utili per una compiuta valutazione del comportamento del dipendente, il principio risulterà violato, attesa l’impossibilità per il lavoratore di esercitare una pronta ed effettiva difesa. Si ritiene al contrario giustificabile l’intercorrere di un certo lasso di tempio tra i fatti e la contestazione, qualora ragioni obiettive impediscano una piena valutazione della condotta del lavoratore, il quale non deve essere oggetto di addebiti avventati, ma deve essere messo in condizione di esercitare il diritto di difesa in relazione alle contestazioni specificamente ed appositamente formulate dal datore nei suoi confronti.
Orbene, per la Corte un intervallo di soli tre mesi tra i fatti contestati alla ricorrente e la contestazione stessa non è idoneo a rappresentare neppure in linea teorica alcun ritardo, attesa l’esigenza di compiere un’approfondita istruttoria per valutarne il comportamento.
In secondo luogo, la Corte ha riaffermato l’ormai consolidato principio secondo cui il Giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità con pienezza di cognizione, non essendo vincolato a quanto deciso dal giudice penale, senza pertanto essere obbligato ad esaminare e valutare le prove e le risultanze acquisite nel processo penale.
Alcun rilievo, quindi, riveste nel caso di specie la sentenza di condanna a carico di soggetti terzi, quale l’avvocato il cui operato sarebbe dovuto essere vigliato dalla ricorrente. Per ragioni analoghe la Suprema Corte ritiene non censurabile l’omessa considerazione della sentenza della Corte dei Conti, favorevole alla ricorrente, da parte della Corte d’Appello di Roma, attesa la diversità di presupposti tra il giudizio contabile e l’impugnazione del licenziamento da parte della dirigente.
Va segnalato che la sentenza in commento si occupa, in termini più generali, anche della valutazione della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento da parte dell’Autorità Giudiziaria.
La Corte ricorda che sia la giusta causa che il giustificato motivo soggettivo costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato e l’altro con preavviso. La qualificazione del recesso, tuttavia, non dipende dal giudizio di gravità dei fatti arbitrariamente operato dal datore di lavoro, trattandosi invece di un apprezzamento riservato al giudice di merito circa la legittimità e congruità della sanzione applicata. Conseguentemente, ben potrà il Giudice, anche d’ufficio, ritenere giustificato un licenziamento per motivo soggettivo in luogo della giusta causa addotta dal datore.
La sentenza in esame si sofferma poi sulle peculiarità che caratterizzano il licenziamento dei dirigenti, specialmente di quelli ai vertici dell’organigramma aziendale quale la ricorrente (c.d. apicali), rimarcando l’importanza dello stretto rapporto fiduciario in relazione alle mansioni loro affidate, come tale suscettibile di essere leso anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o da una importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro.
La Corte evidenzia quindi come il particolare vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro dei dirigenti può portare al recesso qualora il datore addebiti un comportamento negligente, o colpevole in senso lato, ovvero se, a base del recesso, siano poste condotte comunque suscettibili di pregiudicare il rapporto di fiducia tra le parti, dovendosi comunque escludere la piena libertà di recesso.
Pertanto, è stata ribadita la corretta qualificazione del recesso per giusta causa operata dalla Corte d’Appello di Roma, in quanto i comportamenti della ricorrente, tali da minare il rapporto di fiducia in relazione alle mansioni espletate, non consentivano la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, atteso che la natura dirigenziale del rapporto non poteva non comportare una <severa> valutazione della adeguatezza e professionalità della ricorrente ad assolvere in modo soddisfacente i compiti richiesti.
I precedenti giurisprudenziali
La recente sentenza della Cassazione è suffragata dalla giurisprudenza precedente (anche recente), la quale parimenti ha ritenuto che la “nozione contrattuale di giustificatezza si discosta, sia nel piano soggettivo che su quello oggettivo, da quello di giustificato motivo ex art.3, legge n. 604 del 1966, e di giusta causa ex art. 2119 cod. civ., trovando la sua ragione d’essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in ragione delle mansioni affidate – suscettibile di essere leso anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili “ex ante” o da importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, ovvero da comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita – e, dall’altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda” (così Cass. n. 25145 del 13 dicembre 2010).
Parimenti si è pronunciata Cass. n. 21010 del 28 ottobre 2005, la quale ha affermato che “la nozione di giustificatezza introdotta dalla contrattazione collettiva in materia di licenziamento è nettamente distinta dalle nozioni di giusta causa e di giustificato motivo ex art. 2119 c.c. e art. 3 legge n. 604 del 1966, traducendosi essenzialmente in assenza di arbitrarietà e pretestuosità o, per converso, nella ragionevolezza del provvedimento datoriale”, mentre Cass. n. 11691 del 1 giugno 2005 ha precisato che “anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 108 del 1990 – che con l’art. 2 ha esteso nei confronti del dirigente l’obbligo della comunicazione per iscritto del licenziamento, ma non quello della motivazione – il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui all’art.3 della legge n. 604 del 1966 e all’art. 2119 c.c”.
La giurisprudenza di legittimità ha avuto dunque modo di occuparsi di una nutrita casistica di situazioni, le quali comunque tutte postulano il rispetto del fondamentale principio in virtù del quale deve “escludersi l’arbitrarietà del licenziamento, al fine di evitare una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso dei dirigenti da parte del datore di lavoro” (così Cass. n. 7828 del 15 aprile 2005).
E’ pure ius receptum il principio secondo cui “nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore” (così Cass. n. 5546 dell’ 8 marzo 2010). E ancora Cass. n.7410 del 26 marzo 2010 ha affermato che “In tema di licenziamento disciplinare, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l’esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo”; si veda inoltre Cass. n. 2580 del 2 febbraio 2009, secondo cui “il requisito dell’immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richiedano uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo”
Non mancano peraltro precedenti contrari – seppure minoritari – all’orientamento dominante sopra ricordato in punto tempistica della contestazione.
Al riguardo si veda Cass. n. 13167 del 8 giugno 2009 che, con riguardo all’applicazione in senso relativo del principio di immediatezza, ha ritenuto che in tal modo non si “possa svuotare di efficacia il principio medesimo, dovendosi reputare che, tra l’interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini in assenza di una obbiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest’ultimo, tutelata “ex lege”, senza che abbia valore giustificativo, a tale fine, la complessità dell’organizzazione aziendale”.
In senso analogo anche Cass. n. 8461 del 4 aprile 2007, che evidenzia il ruolo del Giudice nella valutazione dell’immediatezza della contestazione: “la discrezionalità del giudice nel valutare la tempestività della contestazione disciplinare deve svolgersi nell’ambito dei presupposti alla base del principio dell’immediatezza della contestazione, ossia del riconoscimento del pieno ed effettivo diritto di difesa garantito “ex lege” al lavoratore e del comportamento datoriale secondo buona fede”.
Infine, con riguardo al principio dell’autonomia e separazione tra giudizio penale e giudizio civile, si segnala il costante orientamento della Suprema Corte, secondo cui le prove e risultanze acquisite “con le garanzie di legge” nel processo penale sono equiparabili a un qualsiasi altro elemento probatorio, come tali liberamente apprezzabili dal giudice civile (così, da ultimo, Cass. n. 4758 del 10 marzo 2015; conf. Cass. n. 2794 del 29 dicembre 2009 e Cass. n. 6478 del 25 marzo 2005).